La comunicazione europea sconta un paradosso, testimoniato dai numeri: funziona, ma non arriva a tutti. Si ferma sulla soglia delle classi più colte e abbienti, con il risultato di non riuscire ad arginare un diffuso euroscetticismo che a volta sfocia in un vero rigetto e mette quindi a rischio l’impianto europeo.
Il Piano “D”
Questa la storia recente. Nel 2000 Eurobarometro, il sondaggio che analizza l’opinione dei cittadini sulle politiche europee e l’Unione nel suo insieme, segnava indici in chiaroscuro: gli europeisti e gli euroscettici si equivalevano. Nel 2005 da Francia e Olanda venne un segnale non più eludibile: la bocciatura elettorale della Costituzione europea. L’intero edificio dell’Unione ne risultava incrinato. Da allora venne avviata una robusta campagna di comunicazione integrata, via via perfezionata e calibrata negli anni, tesa a far conoscere il senso e l’ampiezza delle attività svolte dalla Commissione e dalle altre istituzioni continentali. In estrema sintesi, nel 2005 venne avviato il “Piano D” (Dibattito, Dialogo e Democrazia), specificato l’anno dopo nel Libro Bianco sulla comunicazione, che faceva perno sui principi di inclusione, diversità e partecipazione. Un programma di lavoro incentrato sui valori trasversali della trasparenza e del coinvolgimento dei cittadini: quindi, iniziative sui territori, sito web (il Transparency Portal) con tanto di liste dei beneficiari di sovvenzioni e di appalti, accordi interistituzionali (Communicating Europe in Partnership), consultazioni pubbliche (anche per reindirizzare le stesse politiche comunicative), audiovisivi, canali radio e tv. Un itinerario che sfocia simbolicamente nel 2013, l’Anno europeo del cittadino.
I dati di Eurobarometro
In un recente incontro, organizzato dallo Europe Direct di Roma all’interno di un master del Sole 24 Ore, è stato presentato un importante risultato: dopo 10 anni, i dati del Report "European Citizenship" di Eurobarometro dimostrano che le azioni comunicative hanno avuto esiti significativi. Pure di fronte alla crisi economica ed alle tensioni sociali legate alle migrazioni, il senso di appartenenza europea è a livelli considerevoli: più di due terzi degli europei si sentono “cittadini dell’Unione” (67%, +4 punti rispetto al 2014). Non solo: la sensazione di essere cittadino UE è più diffusa nei paesi dell'area euro (68%) che negli altri paesi (64%). Questi primi due dati sembrano dimostrare due cose. La prima è che la comunicazione professionale funziona, ma solo se fa leva sui valori che segnano la modernità, e cioè la trasparenza e la condivisione con gli utenti. Non più messaggi dall’alto ma umiltà di “aprire” il Palazzo, sia per “far vedere” sia per “farsi giudicare” e permettere ad idee nuove di farsi largo fra le procedure decisionali dell’Unione. La seconda lezione dei dati è che l’euro continua a far da traino all’idea europea, nonostante la pesante crisi economica e gli argomenti polemici di chi, di fronte ad ogni difficoltà dei conti dei singoli paesi, evoca il ritorno all’età dell’oro della moneta nazionale.
L’identikit dell’europeista-tipo
“In cauda venenum”, dicevano i latini. Il punto debole della fotografia resa dall’European Citizenship si annida nell’analisi socio-demografica. L’europeista-tipo è giovane o giovanissimo, anzi più è giovane più crede nell’Europa: dal 54% di chi è nato prima del 1946 si arriva al 73 di chi è nato dopo il 1980. E fin qui il dato può anche esser visto in positivo, perché dà all’idea europea una positiva proiezione futura. Il problema è che chi si sente davvero europeo è anche regolarmente colto e di stato sociale buono o elevato. Riguardo al grado di istruzione, si va dal 77% di europeisti fra chi ha compiuto studi superiori fino al misero 48 di chi si è fermato prima. Per ciò che concerne invece lo stato sociale e professionale, si sentono cittadini europei 3 membri dell’“upper class” su 4, che però crollano a 2 se si interpellano operai e simili.
L’analisi dei dati
Il complesso di questi dati rende un’immagine preoccupante della percezione europea: esiste una grande area di cittadini, coincidenti con le fasce sociali e culturali meno favorite, che vive una vera estraneità rispetto alla condizione di “europeo”. E se confrontiamo questo dato con l’analisi di un altro indicatore di Eurobarometro, quello che sonda i temi più sentiti dai cittadini, capiamo meglio anche le ragioni: per gli europei è oggi l’immigrazione la sfida più importante, mentre i tre quarti degli intervistati non riescono ancora ad essere ottimisti sulla ripresa economica (per il 42%, anzi, “il peggio deve ancora venire”). Immigrazione e povertà sono temi evidentemente più ansiogeni per chi vive condizioni di disagio socio-economico.
Osservazioni finali
Ciò che si può desumere da questa analisi è che la comunicazione dell’UE, che ha già svolto un ruolo positivo nell’ultimo decennio, ha ancora grandi margini di manovra. Ma la sua bussola deve essere sempre più l’inclusione (già oggi la quota di cittadini che ritengono che la loro voce abbia un peso nella UE ha raggiunto il 42%, livello massimo degli ultimi 10 anni). Certamente, le politiche di inclusione presuppongono un forte coordinamento fra gli Stati, contrapposto al flusso piuttosto casuale ed episodico che spesso si rileva nei messaggi dei vari governi. “L’Europa non è politica estera”, ha di recente affermato Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei. L’Europa resta il punto di incontro di valori universali come la libertà, il pluralismo, il rispetto delle donne, la tutela del lavoro, i servizi di welfare. Insomma, non solo pareggi di bilancio e quantitative easing… E il rafforzamento di questo messaggio, grazie alla comunicazione professionale, deve vincere l’apartheid socio-culturale oggi esistente e raggiungere anche la popolazione europea meno giovane, ricca e istruita.
Articolo di Sergio Talamo pubblicato sul quotidiano "Enti locali e PA - Il Sole 24 Ore" del 12 novembre 2015